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a cura di: Susanna Laurenti
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Una visione ironica e disincantata di due temi tabù della nostra società: sessualità e morte vengono inizialmente affrontati grazie all’alternanza di prospettive tra Marco, che assiste il compagno morente Emanuele, e Dario, suo cognato. In presenza della sorella Ilaria.
I due uomini si contrappongono anche fisicamente sulla scena (un’anonima stanza di ospedale) creando una sorta di polarizzazione: da una parte Marco, l’omosessualità per quella che è, la morte per quella che dovrà essere, dall’altra Dario, il risultato di come queste vengono percepite dalla società e quindi il luogo comune e la xenofobia nell’accezione più greca del termine. I preconcetti di Dario sulla sessualità, tema che viene affrontato con molta scioltezza dall’autore,vengono ridotti alla loro natura di credo popolare. Quando la focalizzazione passa dal tema del gender a quello della fine e dell’amore, il morente si anima. Nei primi 30 minuti dello spettacolo diretto dal co-interprete Riccardo Scarafoni, Emanuele infatti non si muove, e fatta eccezione per qualche vago sguardo rivoltogli dal premuroso compagno, potrebbe non essere lì. Il tema classico del viaggio verso la morte viene a questo punto riproposto in maniera originale costringendo i tre “vivi”a orchestrare dei duetti rivelatori tra Emanuele e le loro coscienze. La morte quindi, non vissuta nella sua immediatezza lancinante viene presentata come il viaggio introspettivo che essa produce in chi resta. Nonostante le battute dell’inizio suscitino alcune risate tra gli spettatori, è nell’approfondimento dei personaggi e nel costruirsi lento dell’intreccio degli affetti che si crea il patos del lavoro. Come scrive l’autore Lorenzo Gioielli “bisogna avere il tempo di morire, di salutare chi si deve salutare e dire ciò che si deve, per andarsene sereni e lasciare tranquillo chi resta”. Ed è questo che Emanuele fa, un miracolo,e si prende il tempo per morire.