VITA MORTE E MIRACOLI – Teatro della Cometa: la Vita e quelle scelte che non possiamo controllare
A cura di: Antonio Mazzuca
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Come sempre al Cometa, teatro dalle rosse poltrone di velluto e dalla struttura antica, si sorride e si sospira del tempo presente e delle sue tante contraddizioni involontarie. E così anche in questo spettacolo si sorride nella prima parte dello spettacolo, ma non si ride perché il contesto di partenza è tragico: un ragazzo (Francesco Venditti) è in coma. Il suo compagno è in ospedale, al suo capezzale, insieme alla propria sorella (dal passato turbolento) e al marito di Lei, uomo tanto paziente e bonario, quanto ingenuo e sprovveduto. L’atmosfera ospedaliera asettica e l’attesa dell’inevitabile porta i tre a parlare del più e del meno per ingannare il tempo. E si finisce per battibeccare, rinfacciarsi scelte passate, sconfessare miti presunti, come per esempio la Bisessualità, argomento che si scoprirà piuttosto spinoso per tutti. Quando i tre personaggi restano soli con il ragazzo in coma, ecco che questi si “risveglia” nella loro fantasia e li spinge a confessare quelle debolezze, quelle ambiguità che hanno sempre fatto parte della loro vita.
Il testo è piacevole e scorrevole, dal tratto decisamente moderno sia nella scelta dei temi quali la Bisessualità (richiamata insistentemente prima in senso spiritoso poi in modo sempre più serio) ma anche la difficile definizione della propria Identità a partire dalle scelte che finiscono per definirci come persone. L’opera vive però, anche diversi momenti morti, impossibili da riempire con la musica (per via dell’aderenza realistica al contesto ospedaliero) mentre alcuni passaggi più narrativi, a nostro avviso, andrebbero sfoltiti, soprattutto nella parte centrale. La recitazione è buona ma non sempre mantiene un ritmo sostenuto. I dialoghi non sono serrati, a volte non ci convincono del tutto dal punto di vista del realismo, e ne emerge un intento didascalico non del tutto definito; tuttavia, sono corroborati da una certa vena ironica tagliente e sottile (che emerge nelle parti iniziali) che andrebbe quasi bisbigliata o proferita a denti stretti, tanto è profonda e cinica. A volte, questa vena “tragicomica” si fa quasi beffarda, attraversa la stanza e non scade mai nell’insulto o nella banalità fine a se stessa.
I personaggi messi in scena non sono stereotipati ma nemmeno troppo realistici e le vicende che li coinvolgono sono in bilico tra la realtà e l’intreccio “da fiction”; fortuna però che l’attenzione registica venga provvidenzialmente spostata sul tema delle Scelte e sulla viva (e quasi insistente) caratterizzazione dei personaggi. I tre vivono una vita ossessionata dal controllo, quasi questo rappresentasse un modo per non lasciare emergere quella vita “vera” e senza pensieri, che avrebbero potuto/voluto vivere. Eppure, tale controllo spesso sfugge dalle loro mani: si può scappare dalla vita che ci siamo creati? è forse questo l’interrogativo più interessante che ci resta a fine spettacolo, dopo un finale decisamente amaro quanto tenero ed inevitabile.
Venditti regge la prova impegnativa di mettere in scena un uomo di fatto “conteso”, seppure ormai “morto”; la sua recitazione è pacata e serafica perché appartiene a un essere che sa tutto “che è in pace col mondo” mentre i suoi interlocutori sono visibilmente “vivi” e drammatici” nel loro essere e sentirsi inadeguati su ogni cosa, non pronti ad accettare l’inevitabile che non è solo la Morte ma anche la Vita con tutte le sue contraddizioni (come nel caso del cognato etero, un Fabrizio Sabatucci ingessato in un personaggio dalle poche sfaccettature) nonché le proprie scelte di Vita (nel caso degli altri due personaggi). Il tema della Identità come somma delle scelte che ci definiscono è infatti il nodo intorno al quale ruotano queste anime in scena. La regia insiste sulle loro confusioni, sul loro non voler guardare dentro se stessi ed infine, sul loro bisogno di confrontarsi con qualcuno che li metta a nudo, un’entità non reale di cui hanno un disperato bisogno, che sveli la loro ipocrisia o con i quali vivere un’ultima vera emozione.
Convince la prova di Veruska Rossi, convince quel suo modo graffiante di dire le battute; forse avremmo voluto leggere nei suoi occhi maggiore sfrontatezza trattenuta, avremmo voluto vedere gesti meno controllati ma trapelanti un’altra anima nascosta sotto i vestiti finto-borghesi. Convincono le lacrime di Riccardo Scarafoni nell’atto finale, regista e interprete che ha disegnato un gay che si destreggia fra stereotipi cinematografici involontari, mai rievocati, tutt’al più presenti in alcune movenze ma non riprodotti, così da costruire un personaggio lontano dai cliché di genere. Una scelta che abbiamo sinceramente apprezzato così come il finale che ci ha strappato una nota di dolente commozione ed una riflessione un po’ amara su come è la Vita che spesso fa le scelte più importanti per noi, che noi le controlliamo oppure no, che noi le vogliamo, oppure no.